La primavera successiva alla nascita del mio primo figlio fu la prima primavera che mi fermai a guardare. D’un tratto, dalla finestra aperta mi giunsero suoni, colori e profumi nuovi e fecondi, che immaginai portatori di futuro. I primi duri mesi erano passati e adesso il cambio di stagione mi chiamava a una nuova svolta.
Non ho più saputo vedere la primavera così e ancora oggi, quando arriva, la penso come quel giorno ma senza sentirne il brivido addosso. La vedo, ma non mi parla più.
Sono tornata, in qualche maniera, alla mia antica arte di addomesticare l’abilità della vista capace di sinestesie inebrianti e fiduciose e dunque ripeto stagioni incolori e silenti che non mi accendono.
Qualche volta la vista di un albero in fiore, una lama di sole che tocca con grazia un muro o riflette la mia ombra sul marciapiede, il tepore della brezza che mette fine all’inverno mi scuote all’esercizio di quel super potere sopito. Ma confondo il desiderio di vedere l’essenza con uno sguardo inconsapevole e meccanico e mi affanno nel cercare sensazioni che non sono sicura di provare.
E’ una questione di postura persa da tempo e tutta da recuperare. Ci sono state certamente primavere che ho guardato con occhi puri e suoni, colori e profumi di un paradiso che non ricordo. A volte li immagino in foto dove sono piccina. Mi dico: forse lì. Ma la patina lucida della carta mi fa barriera.
Mi fermo un attimo sul terrazzo e chiudo gli occhi fra i panni stesi e i gerani sofferenti. La luce mi filtra fra le palpebre. E’ luce potente, di primavera che avanza e per un attimo la fiuto e tutto è giallo e morbido e possibile e sono di nuovo alla parte intatta di me.
Riapro gli occhi. Respiro e torno. A ogni respiro sono diversa e “sul punto di cogliere qualcosa che mi é appena sfuggito“.
Dentro il secondo giorno c’è più luce, più sicurezza, più fluidità. Si delinea una postura da “altro” rispetto al dover essere. Dunque qualcosa dietro il muro, c’è.
Ho azzardato un caffè, che di solito mi nego sull’onda di un severo giudizio sulla mia capacità di gestire l’ansia.
Non ho molto dormito, ma ho toccato una pallina, ho letto varie pagine e ricordato un itinerario.
La sera è calma. Devo trascrivere alcuni appunti sull’agenda con la mia stilografica.
Ragazzi, apparecchiate! È un richiamo di gioventù, di sere estive, di avere un posto nel mondo.
Il primo giorno di vacanza è il più difficile perché mi aspetto sempre una decompressione che, invece, puntualmente, arriva solo più tardi.
Il primo giorno di vacanza lo pretendo ristorativo delle ansie di un anno e stabilisco una barra troppo alta che si rivela tinsuperabile.
Il primo giorno è un’idea, un ideale, un sogno, un’arcadia irrealistica, un’infinita ombra del vero. Me lo racconto e me lo spaccio per possibile, ma è solo perché l’inevitabile delusione è un’irresistibile coperta di Linus: scomoda, di lana urticante, perfino un po’ puzzolente ma nota e dunque tranquillizzante.
Oggi il primo giorno, questa volta vorrei che fosse il primo di una nuova e diversa consapevolezza. Essere qui e ora con tutta me stessa.
Contratto con la realtà, rinegozio, accetto, modifico, confliggo, sbaglio e rettifico, sosto, eccedo. Non c’è un primo giorno e non c’è un punto, c’è un percorso lungo e tortuoso che non posso pretendere di vedere se non salgo un pochino più in alto.
Nel primo giorno ci sono stati una dormita fino a tardi, un fiume e dei panini, una mail inaspettata e in qualche modo gestita, il suono della pallina da ping pong e un nuovo libro.
E sono solo le 7. La giornata non è finita: non c’è modo di mettere l’ennesimo punto.
Questo lo scrivo per lei, che oggi ha bucato per me il tempo nebuloso e appiccicoso della pausa pranzo, che spesso promette kairos e si rivela chronos impietoso (se lo si guarda dal basso).
Lo scrivo per ritrovare il desiderio di scrivere, che non ha nulla a che vedere con gli immaginari destinatari del testo e neppure con la me che si siede e lo fa. E’ desiderio puro, etereo eppure così tangibile. E’ iniziare qualcosa senza sapere dove si va, ma sapendo come si fa. E’ un talento muliebre, vecchio quanto il tempo e nascosto alla vista di un ordine che non lo cura.
Scrivo perché sospinta, ché siamo tutte barchette bisognose di aliti di vento, leggere e imponderabili, sfuggenti agli strumenti che pretendono misurazioni impossibili.
Scrivo perché non sono sola, ma tutte scriviamo e qualcuna deve pur dirlo e farne un manifesto generale e io me ne prendo la briga. Anzi, il manoscritto lo porto poi in stampa alla Hogarth Press. Chissà se me lo pubblicano, ma bisogna puntare in alto, altrimenti ci annoiamo. Così mi ha detto pochi giorni fa la professoressa di chitarra di mia figlia e pensavo mi avesse fatto sorridere e invece mi ha fatto riflettere.
Scrivo perchè altrimenti voi non capite la potenza di queste donne e sarebbe un peccato. E’ una potenza che rigenera e sottrarvisi non è consigliabile.
Piano piano e di quando in quando scrivo e ri-scrivo. Per tutte noi.
A volte è necessario essere fedeli a noi stesse, a considerarci il porto inevitabile a cui fare ritorno, senza il peso di un giudizio o di una valutazione.
Perfino le parole non sanno dire.
Inevitabile non vuol dire che non lo posso evitare ma, anzi, che mi ci dirigo nella mia interezza.
Tante sono le scintille di questo periodo, che si misurano con un’esistenza necessariamente (inevitabilmente!) sobria e regolare e le accolgo con nuova curiosità e molta paura.
E’ necessario scriverne, per mettere ordine ai pensieri e per fare luce avanti nel cammino.
Centellinare il té. Il té è bevanda lunghissima, calda e avvolgente.
Pensare alla giornata davanti. Adoro pianificare, pensare, immaginare come sarà. Mi nego ogni sorpresa. Mi dico che non la voglio, anzi la temo. Ma dentro di me c’è sempre una bambina piccola piccola che dice: chissà! – e strizza l’occhio al mio volto severo.
Piangere un po’ per un uomo di 27 anni (proprio oggi) che sarebbe stato bellissimo e a cui io somiglio molto.
Guardare un quadratino di verde dalla finestra, immerso nell’aria lattiginosa dell’ennesima giornata di pioggia.
Decidere se fare la doccia. E lavare via tutto e ricominciare.
Pensare al libro che sto leggendo e sentire la sensazione calda dei libri belli ancora a metà, che promettono e non ti dicono come finiranno. La piccola è contenta.
Scrivere alle amiche. Messaggi brevi, leggeri e col cuore.
Il mare è troppo tempestoso. Io non ho abbastanza esperienza né capacità. I pericoli sono tanti. Il viaggio è solitario. Il tempo inclemente. La nave non è solida. Le mappe sono sbagliate. Gli strumenti di bordo non sono verificati. I viaggi precedenti sono stati inconcludenti. Le rotte sono quasi sempre ignote e mai battute prima. Non ho i vestiti adatti. Non so dove voglio andare e non voglio scoprirlo.
Ho smesso di navigare ma non funziona. A quanto pare sono marinaia e ho una nave da mantenere.
Sono quasi certa che si infrangerà negli scogli. E che dovrò stare a guardarla. Finanche ricostruirla: e odierò ogni pezzettino che rincollerò. Odierò la vastità sconfinata del mare in cui immergerò la barca rincollata. Dovrò mettere una guaina sui solchi dellle fiancate perché non vi entri l’acqua salata che brucia, disgrega e corrode la polpa del vecchio legno. Dovrò ricucire le logore vele, disincagliare l’ancora dalle alghe del fondale, bonificare il ponte intriso di acqua marcia, pulire la cucina.
Dovrò parlare all’equipaggio. Non è vero che sono sola. Lo sembra solamente, a volte.
Ho smesso di navigare e ascoltato il fischio del vento e il rifrangersi delle onde. Ho sentito lo sciabordio di acque ferme. Ho annusato il puzzo di fetida acqua di porto abbandonato. Ho lasciato la ciurma a chiedere il perché della sosta, senza rispondere.
Ho smesso di navigare con soddisfazione. Per vedere il vuoto, per ascoltare il silenzio, per capire il nulla. Mi sono fermata per fermare ciò che non si ferma. E ho scoperto che tutto si ferma e tutto inesorabilmente riparte, se lo decido io.
Ho una nave da mantenere e la manterrò, ricordandomi dei vermi che la infestano, dell’albero maestro marcito e delle mappe sbiadite, inservibili. Per la rotta, guarderò le stelle, la notte. Anche se il cielo di notte mi fa paura.
Tempo fermo. Un fotogramma terribile mi cattura in una smorfia deformante. Io so che sono meglio di così ma lo scatto ha congelato la distorsione del viso e la lascia lì, pendere, perché la vedano tutti.
Esiste un prima e di certo ci sarà un dopo del fotogramma. Ma l’immagine catturata che, per adesso, è l’unica che vedo fa una smorfia orribile, rabbiosa, che non mi pare modificabile.
La guardo attonita. Il presente mi sembra tutto quello di cui posso disporre. Mi sembra che definisca anche il passato è il futuro.
Resisto e scalcio all’avere fiducia. L’ho rotta e non riesco a rammendarla, non riesco a riempire le crepe. Eppure, da qualche parte, so che le possiamo riempire in un modo che mi convince, a cui credo e non solo in cui spero.
Stamani me ne sono ricordata. Ma solo perché l’ho sentito in tutta la sua potenza, non perché l’ho visto. Di quando è successo non mi ricordo più, gli occhi della mente non mi aiutano.
Ho sentito lo strappo di quando una è cullata e poi non lo è più. E non lo è più perché funziona così. Le braccia smettono di cullare e si è mandate al mondo come meglio si può.
E io sono al mondo e ho imparato a starci ma ricordo le braccia e, anche se non so di farlo, le cerco sempre.
Trovo surrogati. Talmente buoni che mi consentono di andare avanti ma non di sospendere la ricerca di quelle che possano curare la ferita. La ricerca a volte è frenetica e insensata. Sei tu? Sei tu?
E se non so cercare? No, lo so fare per forza. Mi fido. E vado avanti con le mie ferite aperte, visibili e faticose, sempre uguali.
Mi viene in mente che la ricerca è continua e io invece penso sempre a un traguardo, a una fine, a una linea. Il coraggio sta nel continuare.
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